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Viva l'arte viva? Impressioni di ritorno dalla Biennale d'Arte di Venezia

“Bisogna insomma che l’artista (…) lanci la propria opera, se vuole che possa percorrere la propria strada, là dove vi sia sufficiente profondità, in pieno e lontano futuro. E tuttavia, se il non tener conto di quel futuro, che è l’autentica prospettiva dei capolavori, rappresenta l’errore dei cattivi giudici, il tenerne conto costituisce a volte il pericoloso scrupolo dei buoni. Certo, è facile immaginare, per un’illusione analoga a quella che all'orizzonte rende tutte le cose uniformi, che ogni rivoluzione avvenuta sinora nella pittura o nella musica abbia comunque rispettato certe regole mentre quello che ci sta immediatamente davanti, impressionismo, ricerca della dissonanza, impiego esclusivo della gamma cinese, cubismo, futurismo, differirebbe in modo oltraggioso da ciò che è venuto prima. Il fatto è che ciò che è venuto prima lo si considera senza tener presente che una lunga assimilazione l’ha trasformato per noi in una materia indubbiamente varia, ma in fin dei conti omogenea (…). Basti pensare agli sconvolgenti contrasti che presenterebbe ai nostri occhi, se non tenessimo conto del futuro e dei mutamenti che esso comporta, un oroscopo della nostra stessa maturità annunciatoci durante la nostra adolescenza. Solo che non tutti gli oroscopi sono veri, ed essere costretti, per un’opera d’arte, a includere nella somma della sua bellezza il fattore del tempo mescola al nostro giudizio qualcosa d’altrettanto aleatorio, e per ciò stesso destituito d’ogni autentico interesse, quanto qualsiasi profezia, il cui mancato avveramento non implicherà in alcun modo la mediocrità intellettuale del profeta, giacché quel che chiama all'esistenza i possibili o da essa li esclude non è necessariamente competenza del genio”.

Parole di Proust che inducono ad interrogarci non solo sul rapporto tra arte e pubblico, tra l’arte e il suo tempo, ma anche, più generalmente, su cosa sia arte. Non si ha qui la presunzione di scrivere un trattato; sono solo alcune considerazioni sull’arte contemporanea nate dall’esperienza offerta dalla Biennale di quest’anno, che, però, pur nella loro parzialità, possono aiutare, come ogni particolare, a chiarire l’insieme, che qui si presenta come particolarmente complesso.

Comune a molte opere in mostra è la necessità d’una loro spiegazione


Le opere esposte alla Biennale non sono immediatamente comprensibili. La loro ragione d'essere è quella di indicare, esprimere o rappresentare una situazione, un’idea, un concetto; di qui, dunque, il nome di “arte concettuale”, applicabile a larga parte di questa esposizione e della produzione artistica degli ultimi decenni. Leggendo, nella “Storia dell’arte universale” curata da Sgarbi ed edita nell‘88 da Mondadori, il paragrafo dedicato a tale corrente, possiamo vedere come per essa “ciò che davvero importa nell’opera non è tanto la sua fisicità oggettuale, la sua fattura concreta o il dato materiale della sua presenza, quanto piuttosto l’idea (…) che risiede dietro l’opera, che la precede e la informa”; ma è questa la natura dell’arte? Può darsi vera arte- sia essa letteraria, figurativa, musicale, plastica o d’altro tipo- come semplice rimando, esempio, manifestazione d’un concetto, rispetto al quale la singola opera, “l’individuo, l’essere o l’oggetto concreto, tutto ciò ch’è singolo rappresenta sempre (…) una decurtazione avvilente (…), una esemplificazione parziale”?

Prendiamo ad esempio un’opera tradizionale, poniamo la “Pala Baglioni” di Raffaello: essa non rappresenta- col sordo peso di Maria crollata e inerte come il suo Figlio, teneramente accarezzato dalla trepidazione materna e disperata della Maddalena- che se stessa, o meglio mostra quanto v’è in essa di concettuale e di astratto nella propria intima vita, senza alcuna gerarchia tra materia -intesa come oggetto, verbale, visivo o sonoro che sia, da plasmare-, e forma- volontà, disegno ordinatore e creatore. E’ solo nella materia, infatti, che la forma può manifestarsi non come mero concetto o idea, ma come spirito vivente, non potendo, nell’arte, l’una manifestarsi senza l’altra, a meno che non si voglia rendere l’opera non già artistica, ma artigianale o, per contro, speculativa. Solo l’equilibrio tra le due, infatti, può creare un organismo, un sinolo inscindibile di individuale e universale, dove questo riluce, animandolo, in quello, che non ne è affatto “decurtazione avvilente”, ma al contrario unico, luminoso e splendido corpo; incarnazione, questa, che non è semplice rimando, indicazione, richiamo, rappresentazione d’un ideale a lei superiore, quanto invece sua realizzazione ed attuazione in veste, appunto, particolare.

Posizioni per cui “l’idea (…) ha comunque la forza di trascendere la portata del fenomeno presso cui si manifesta, rendendolo solo un “caso” tra le infinite occorrenze possibili” rischiano spesso di cadere nell’intellettualismo e nel freddo cerebralismo. Se, per esempio, passando un dito di verde su un tramonto di Tiziano, ferirei certo gravemente l’opera nel suo delicatissimo e unitario equilibrio; non  sarebbe la stessa cosa se facessi altrettanto con un’installazione come quella, in mostra alla Biennale, consistente in una parete ricoperta di cassette audio o video: il concetto dell'opera e, quindi, la sua sostanza, non ne verrebbe in alcun modo intaccato, rimanendo chiaro nella sua intelligibilità. Questo tanto più se si pensa al fatto che molte di queste opere, terminata la mostra, vengono smontate e riutilizzate per altri fini.

L’arte, così, ha finito, con questa tendenza- di cui il prof. Sproccati, autore dell’articolo cui ci stiamo riferendo, non esita a sottolineare gli aspetti “platonici” – col farsi sempre più messaggio e sempre meno individuo, sempre più analisi e sempre meno voce della vita, il cui “puro palpito”, per Croce, la poesia dovrebbe cogliere “nella sua idealità”. 

Luogo: Venezia – Giardini Marinaressa
Titolo mostra: PERSONAL STRUCTURES. Open Borders
Artista: Carole A. Feuerman
Dal 13 maggio al 26 novembre 2017
Già Aristotele, definendo l’arte come imitazione, mimesi della natura, le nega la prerogativa dell’indagine propriamente speculativa, col porla invece quale riproduzione, riadattamento del possibile - e, in quanto tale, universale - in una dimensione particolare; così, l’atteggiamento dell’artista verso il mondo non sarà tanto critico, nel senso etimologico del termine, quanto contemplativo, non negandosi con ciò anche la liceità di prese di posizione dell’autore verso la realtà, che nel suo lavoro però si mostrerà tutt’intera, e non per essere giudicata nella sua verità o falsità, nella sua bontà o malvagità o in altre determinazioni, ma per essere semplicemente osservata e mirata nel suo apparire e dispiegarsi; lavoro che se può essere volto anche a edificare, a denunciare e così via, non può però trovare il proprio pregio e valore artistico propriamente in tale scopo, ma forse, rispetto ad esso, solo nella sua persecuzione, laddove la materia non sia ottusamente e servilmente subordinata a questa, essendo comunque tali finalità di diversa natura, non estetica. La commozione e la vicinanza ai soldati, ad esempio, con cui certe pagine di memorialistica ci fanno vivamente comprendere l’orrore della guerra non si devono alla semplice denuncia di questa, ma alla creazione d’una situazione in cui tale sentimento si palesi tramite e nei personaggi, venendo dunque colto nella sua semplice presenza- con tutta la forza che però ciò implica- senza ulteriori qualificazioni, estranee all’arte in senso proprio.

Altra sua qualità unica, poi, come sottolinea Claudio Magris, è la sua capacità di superare, di oltrepassare la contraddizione, non ignorandola, ma ricomponendola in una nuova e più umana condizione; solo nell’arte, infatti, è possibile dire “odi et amo” senza che le proprie parole perdano di significato, talvolta anzi intensificandolo, risuonando più vive.

Allora, capiamo quanto povere e vuote siano spesso certe elaborazioni concettuali, certi artifici cerebrali rispetto alla semplice bellezza del canto omerico, “scuola dell’Ellade” e non solo comprensibile, ma quasi comprensivo d’ognuno, della sua stessa vita, il cui codice è stato in parte proprio da esso cantato e plasmato; vediamo come stentate e magre le pretese d’originalità, di novità davanti alla stupenda e pienamente politica partecipazione del corpo cittadino agli agoni drammatici in Grecia, vissuti come importanti momenti di crescita individuale e collettiva; e ci accorgiamo di come la bellezza non sia affatto appannaggio di pochi, dono divino di rari eletti, ma voce e gesto sinceramente umani, di cui ognuno- come notano Borges e lo stesso Croce- è capace.

Ora, non si vuole dire che tutte le opere esposte alla Biennale siano infelicemente lontane e distanti, nella loro sofisticata concettuosità, né dunque che tali siano tutte quelle riconducibili a questa corrente, ma che essa, nei suoi principi e dunque in molti suoi risultati, non esprima appieno la natura- quindi la meraviglia- dell’arte. Nonostante questo, però, alcuni lavori hanno mostrato- almeno così mi è parso- notevole forza di sentimento, e non è un caso che questi fossero talvolta i più semplici, come ad esempio l’installazione dei kazaki coniugi Vorobyev, “The artist is asleep”.
Vorobyev, “The artist is asleep”
Questa, con la modestia della sua brandina, la tenera dolcezza della sua sottile coperta, la luce tenacemente esile della magra lampadina, l’infantile fantasia del ricamo sospeso sul letto, tutte intente a custodire, col loro fiato caldo, il placido sonno del bambino- lì bambola- in un raccolto tepore quasi da Natività, questa non esprimeva- immediatamente, sensibilmente e non simbolicamente come molte altre- soltanto il puro raccoglimento e la sincerità di sguardo, stupito come quello appunto d’un bimbo, da cui nasce l’opera d’arte, ma dava voce quasi ad un’epoca- là quella sovietica, densa a volte di calore umano nonostante, e forse grazie, alla sua fredda e sorda durezza esterna- e quasi forse ad uno spirito- la larga, vasta e grande, come la sua terra, anima russa.

Così, tornando all’iniziale citazione proustiana, vien da chiedersi in base a quali criteri possiamo affermare con decisione la bellezza, la natura artistica d’un opera, pur vivendo in un presente figlio di tanti altri, e dunque come questi favorevole a certe qualità piuttosto che ad altre; cosa permette di sostenere con sicurezza, universalmente e non relativamente ai tempi, che un certo lavoro sia arte? Forse, buon punto di partenza potrebbe essere quello di cercare anzitutto la sincerità, l’umanità dell’opera dietro tutto il lavoro, la cura, la rifinitura che giustamente viene a darle forma, umanità rivolta con sguardo meravigliato e virilmente umile al misterioso rilucere della vita- non inficiato da preconcetti ideologici o egoistici sentimentalismi-, prezioso fluire che, come il sole la gioia d’un bambino, l’arte dovrebbe riflettere.




                                       

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